falanghina

Gli spaghetti cacio e pepe sono famosi tanto quanto la città in cui essi sono nati, ovvero Roma: sono tra i piatti più richiesti nelle osterie della Capitale e non c’è romano che non vanti la sua maestria nell’eseguirne la ricetta.
L’origine di questo pilastro della cucina romana è antichissima: nel corso della transumanza invernale i pastori dell’agro romano si dotavano di alimenti calorici a lunga conservazione per affrontare i difficili spostamenti. Tra questi non potevano mai mancare: pepe nero, spaghetti essiccati (rigorosamente fatti a mano) e una fetta di cacio, meglio se pecorino. Il pepe nero, infatti, stimola i recettori del calore, mentre la pasta fornisce il giusto apporto di carboidrati e proteine. Il cacio, infine, è un alimento a lunga conservazione.

Il segreto di questo piatto, oltre alla combinazione chimica di acqua e proteine del pecorino per ottenere una cremina senza grumi, sta proprio nel procedimento: grani di pepe interi schiacciati al momento e tuffati in padella a tostare per sprigionare tutto il profumo pungente; la pasta mantecata lentamente e in maniera controllata per assorbire tutto il gusto del pecorino romano quando viene aggiunta la crema.

Secondo i romani gli spaghetti cacio e pepe vanno accompagnati da più di un buon bicchiere di vino.  Sì, ma quale vino scegliere? Non sono solo i vini laziali a conquistare la tavola quando questo piatto è protagonista. Anche alcuni vini campani possono accompagnare questo gioiello della cucina romana. Ad esempio il “Capriccio di Falanghina” di “Capri Moonlight” è perfetto con il gusto deciso degli spaghetti. Di buon corpo ed intensità, capace di armonizzarsi con la sapidità del piatto, di richiamarne i profumi attraverso le note speziate, e di esaltarne il gusto, questo vino sfata il mito secondo il quale agli spaghetti cacio e pepe vanno abbinati o vini laziali oppure vini rossi: la sua freschezza prepara il palato al successivo boccone, sostituendo la capacità sgrassante del tannino tipica dei rossi, mentre il suo vitigno di origine, la Falanghina, coltivato anche nel Lazio, pare risalga più o meno al 1825 quando i mercanti romani portarono in Italia quest’uva dalla Grecia, diffondendone la coltivazione al centro e al Sud.

Foto e ricetta di Grazia Guarino
Testo e abbinamento di Maria Consiglia Izzo

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